L’OSPEDALE MARTINI DI TORINO SI RINNOVA

Uno scorcio del nuovo reparto

Una ventata di miglioria per il nosocomio con la realizzazione del nuovo Reparto di Anestesiologia e Rianimazione.

di Ernesto Bodini (giornalsita scientifico e biografo)

È pur vero che la Sanità italiana continua ad accumulare carenze che, elencarle ogni volta, diventerebbe retorica, ma quando si tratta di qualche innovazione specie se riguarda gli ospedali, è bene prenderne atto auspicando il suo moltiplicarsi. È il caso dell’ospedale Martini dell’Asl Città di Torino (direttore sanitario il dott. Giovanni Andrea Campobasso) che, alla presenza delle Autorità politiche locali e sanitarie, nel dicembre scorso ha inaugurato il nuovo Reparto di Anestesiologia e Rianimazione diretto dal dott. Mauro Navarra, coadiuvato dal coordinatore infermieristico dott. Vincenzo Colino, e dalla responsabile della Terapia Intensiva dott.ssa Antonella Rigano. Presenti inoltre  il direttore delle Professioni Sanitarie dott. Fabiano Zanchi, e i prelati della Curia Metropolitana torinese Don Paolo Fini e Don Giuseppe Logruosso. La Struttura, moderna e al passo coi tempi, è situata al 2° piano e poggia su un’area di 700 metri quadri, per 13 posti letto, suddivisi in 3 ampie aree di ricovero da 4 posti ciascuna, a cui si aggiunge una postazione per l’isolamento singolo. Ogni area di ricovero è dotata di impianto a pressione negativa, ed è possibile garantire una simultanea risposta sia alle emergenze pandemiche sia all’attività clinica rianimatoria ordinaria. Tutti i posti letto sono attrezzati con monitor multi-parametrici, ventilatori polmonari e presidi per l’assistenza al paziente critico, oltre ad altre strumentazioni che comprendono monitor emodinamici invasivi e neurologici, dispositivi per la dialisi, ecografi, e dispositivi per la terapia ventilatoria non invasiva e inalatoria con gas medicali, quali ossido nitrico e elio. Inoltre, ogni posto letto  è dotato di un personal computer per la gestione della cartella clinica informatizzata. Un ulteriore aspetto innovativo consiste in un impianto di diffusione sonora in grado di sviluppare progetti di musicoterapia a conforto dei ricoverati. «Oggi è un momento bello – ha dichiarato il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, rivolgendosi agli operatori sanitari – che dimostra che c’è tanta buona sanità. Credo che quello che abbiamo vissuto con il Covid ci abbia insegnato molto… Ringrazio tutti e posso dire che noi, come amministratori pubblici, continueremo a mettercela tutta per far sì che la vostra professionalità, il vostro impegno e la vostra passione possano essere valorizzati dall’istituzione regionale».

L’équipe

La cerimonia, che ha visto la presenza di gran parte del personale in organico, è stata sottolineata dal direttore generale dell’Asl torinese, dott. Carlo Picco che ha ricordato: «Durante l’acme della pandemia abbiamo dovuto trasformare la Chiesa dell’ospedale in una stanza di terapia semi-intensiva per accogliere i pazienti covid positivi. Da qui oggi partiamo con l’inaugurazione del nuovo reparto di Anestesiologia e Rianimazione. Un investimento importante che migliorerà la qualità delle cure e la sicurezza dei degenti e degli operatori sanitari. Un doveroso ringraziamento va a tutto il personale che si è impegnato per la realizzazione del nuovo reparto». Una innovazione al passo coi tempi dal punto di vistra tecnologico, logistico e strutturale, ma non  meno importante è l’attenzione per i pazienti garantendo loro il massimo comfort garantito da umanizzazione, eccellenza e professionalità. «Nella nuova struttura – ha precisato il dott. Navarra – l’équipe medica e infermieristica potrà prendere in cura i pazienti affetti da shock settico, ARDS (Acute Respiratory Distress Syndrome, ndr), pazienti chirurgici complessi e pazienti con insufficienza multi-organica, garantendo loro il supporto ai familiari che potranno far visita al proprio congiunto per gran parte della giornata. Sarà inoltre garantito il necessario supporto psicologico, grazie alla collaborazione dei colleghi del Servizio di Psicologia Clinica del Presidio Ospedaliero».

La Terapia Intensiva (Rianimazione)

I pazienti che sono ricoverati in questo reparto possono essere definiti “sorvegliati speciali”, in quanto costantemente monitorati e aiutati da particolari macchine a svolgere le loro funzioni vitali. Ma qual è il tipo di malato che necessita di cure intensive? La rianimazione come atto è vissuto “poco sopra la morte”, ma in realtà non è del tutto così. Parlare di terapia intensiva, come personalmente mi è capitato di visitare nel pieno della sua attività, è fare riferimento ad una estrema specializzazione da parte del medico anestesista-rianimatore, al quale viene affidato il paziente inviato dal pronto soccorso o dalla sala operatoria: un momento particolarmente delicato  in cui, minuti persi o errori potrebbero costare la vita al paziente. Il letto su cui viene adagiato il paziente è attorniato da una serie di macchinari e apparecchiature sofisticate, che vale la pena elencare. Monitor che misurano l’ossigenazione e la pressione del sangue, l’elettrocardiogramma, la pressione polmonare e quella intracranica; un ventilatore meccanico per aiutare a respirare sostituendo i polmoni; le pompe-siringa servono a infondere con estrema precisione nel corpo del paziente farmaci vasoattivi (attivi sulla pressione) e sedativi; pompa peristaltica per fornire liquidi al corpo attraverso un catetere, altra pompa per il catetere che è inserito nella vena giugulare; le sacche a pressione servono a tenere aperte le vene e le arterie; la sacca per la raccolta di liquidi organici (urine e drenaggio delle ferite). Il lettino, che deve avere un materasso antidecubito, è costituito di un materiale speciale, particolarmente morbido, che permette di alternare i punti in cui la cute appoggia sul letto stesso; infatti, il paziente non può muoversi e l’ausilio di questo letto (che qualcuno ha definito “un’arma per combattere la morte”) permette di evitare la formazione di piaghe da decubito, ossia quelle dovute alla posizione assunta dallo stesso paziente. È questa, in sintesi, una delle caratteristiche più significative di un’attività ospedaliera, e ogni volta che i politici-gestori della Sanità pubblica pensano e investono per rispondere a tali esigenze, non possono che aggiudicarsi il plauso della collettività… con l’accortezza della continuità indipendentemente dai vari momenti di crisi: la salute e la vita umana prima di tutto (Pandemia da Sars-CoV-19, docet!).

Un po’ di storia: le origini dell’Anestesia e il professionista di riferimento

L’anestesista è un medico specialista, per certi versi forse ancora un po’ “misterioso” per il pubblico. Il suo ruolo è molto importante nell’ambito dell’attività ospedaliera perché, oltre a somministrare l’anestesia in sala operatoria, si occupa di tutta la parte di preparazione del paziente prescrivendo eventualmente indagini diagnostiche per capire la situazione clinica dello stesso, prima di essere sottoposto ad anestesia; e si occupa anche del post-operatorio, non soltanto per il controllo del dolore ma anche di monitorare soprattutto nei pazienti più complessi i parametri vitali. Nel corso degli anni questo professionista che alcuni definiscono “l’angelo custode” dei pazienti (e dei chirurghi), si è occupato della terapia intensiva post-operatoria attraverso monitor, divenendo quindi anche rianimatore. E proprio per le sue competenze in sala operatoria e in terapia intensiva, l’anestesista si occupa anche delle urgenze-emergenze intervenendo in tutte le situazioni più critiche. L’Anestesiologia è una Disciplina clinica che suscita, soprattutto in ambito pediatrico (e in taluni pazienti anche adulti) ancora molte paure, provocando nei genitori timori ed apprensioni ancor più rispetto all’atto chirurgico in sé. Ma cos’è l’anestesia? Ricche le fonti della sua scoperta che risale ufficialmente al 1846. Ma facciamo un breve passo indietro. Solo alla fine del ‘700 vennero scoperte le proprietà anestetiche del protossido d’azoto, più noto come “gas esilarante”. Dei medici americani cominciarono a studiare questa sostanza; uno di questi era un dentista, il dott. Orace Wells (1815-1848), e nel 1844 sperimentò su se stesso il protossido d’azoto asportandosi due denti senza provare nessun dolore. Fece allora una dimostrazione pubblica, ma il paziente a cui estrasse un dente urlò per tutto l’intervento. Un suo amico e collega, il dentista William Thomas Green Morton (1815-1865), volle ripetere l’operazione due anni dopo non con il protossido d’azoto ma con l’etere solforico, un liquido volatile e infiammabile chiamato anche “vetriolo dolce”. Morton chiese al Massachusetts General Hospital di Boston di applicare il suo metodo anestetico: fu un successo, il primo di una innumerevole serie che ha permesso la vittoria sul dolore. In seguito all’etere arrivò il cloroformio che aveva un odore meno sgradevole e non era infiammabile. Negli anni ’30 il cloroformio fu sostituito dal ciclopropano, l’anestetico più impiegato durante la seconda guerra mondiale, a sua volta superato dal fluotano (o alotano) da cui derivano tutti gli attuali anestetici inalatori.

Gli anestetici endovenosi come il pentotal, vennero impiegati a partire dalla seconda guerra mondiale, come anche il propofol che, nel 1986, ottenne regolare approvazione per utilizzo clinico nel Regno Unito. Oggi, l’anestesia si distingue in anestesia generale (narcosi) e in anestesia locale. «Nell’immaginario collettivo – affermava il medico statunitense William Henry Welch (1850-1934 nella foto) della Johns Hopkins Medical School – sembra che la scoperta 0, invenzione, dell’anestesia chirurgica, richiedesse particolari doti intellettuali o grande preparazione scientifica, e non si può dire che alcuni protagonisti come Long, Wells o Morton possedessero queste qualità; essa fu piuttosto il risultato dello spirito indagatore, dell’attenta osservazione, dell’audacia, della perseveranza, dell’ingegnosità, della ricerca di mezzi per migliorare un’arte utile, dell’interesse per l’aspetto pratico più che per quello teorico: tutti tratti più o meno caratteristici della mentalità americana, per cui, a mio parere, non è stato del tutto casuale che sia stato proprio il nostro Paese a dare alla luce l’arte della chirurgia senza dolore. Mi conferma in questa opinione il fatto che non uno ma parecchi americani stavano lavorando indipendentemente sullo stesso problema, la cui soluzione è stata merito esclusivo dei nostri compatrioti».

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