14 Nov 2021

COP26, cosa prevede e come giudicare il Glasgow Climate Pact – #408

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Sono state ultime ore frenetiche alla COP26 sul clima di Glasgow, in cui ondate di sensazioni contrastanti hanno attraversato la sala dell’assemblea plenaria dove erano riuniti i delegati. Frustrazione, entusiasmo, stanchezza, di nuovo frustrazione, speranza, infine un accordo acciuffato in extremis, il Glasgow Climate Pact, che lascia molti insoddisfatti. E che… è piuttosto difficile da commentare, ma ci proveremo!

Glasgow Climate Pact, accordo in extremis

«Non posso tornare anche questa volta dai miei figli, a casa, e dir loro che non siamo riusciti a combinare nulla». Sono le parole di Tina Stiege, rappresentante delle isole Marshall nel suo accorato appello finale alla COP26. Parole che, assieme alle lacrime di Alok Sharma, il presidente britannico della COP, racchiudono il senso e le sensazioni di questo summit.

Ora, non so cosa dirà ai suoi figli a casa Tina Stiege, fatto sta che l’accordo alla fine è stato raggiunto, si chiama Glasgow Climate Pact (Patto sul clima di Glasgow), e vedremo qui cosa prevede e come possiamo giudicarlo. Prima però facciamo un riassunto di questi ultimi frenetici giorni.

Tutto sembrava in discesa quando Cina e Stati Uniti avevano annunciato mercoledì sera una insperata collaborazione sul clima. La bozza di accordo ufficiale presentata poco dopo conteneva alcuni elementi interessanti, tipo la riduzione del 45% delle emissioni mondiali entro il 2030 rispetto al 2010, un riferimento alla necessità di abbandonare i combustibili fossili, e un sistema di aiuti dei paesi più ricchi verso quelli più poveri nel percorso di adattamento climatico e abbandono delle fonti fossili. Insomma sembrava un punto di partenza accettabile su cui lavorare.

Poi però qualcosa è andato storto e le distanze fra i paesi sono tornate a crescere. In particolare si sono creati 3 blocchi diversi di Paesi. I paesi cosiddetti sviluppati, ovvero quelli che hanno contribuito di più a danneggiare il pianeta negli ultimi secoli, i paesi in via di sviluppo, che sono quelli che ambiscono a crescere e inquinare quanto quelli sviluppati (sì abbiamo un’idea curiosa di sviluppo), e i paesi cosiddetti “sfigati”, soprattutto isole sperdute negli oceani, ma anche alcuni paesi africani e del sudest asiatico, che sono quelli che subiranno per primi le conseguenze dei cambiamenti climatici.

In pratica il blocco dei paesi cosiddetti sviluppati, che sono coloro da cui – soprattutto – era arrivata la proposta dell’accordo, spingevano per approvarlo così com’era. Poi c’erano alcuni di quelli in via di sviluppo – in particolare Cina e India – che spingevano per ammorbidire alcuni aspetti, tipo la rinuncia ai combustibili fossili, sostenendo che i paesi in via di sviluppo avrebbero una sorta di diritto a inquinare perché gli altri lo hanno già fatto prima, e ne hanno tratto vantaggio, e loro no.

E il terzo blocco dei paesi “sfigati”, che nominalmente fanno parte di quelli in via di sviluppo ma che per ragioni geografiche vedono nei cambiamenti climatici un rischio molto concreto e a breve termine, che potrebbe farli letteralmente scomparire dalla faccia della terra, tipo le Maldive, per fare un esempio, e che quindi se ne fregavano abbastanza dei vantaggi che potrebbero avere in quanto paesi in via di sviluppo, perché la loro prospettiva è quella di finire sott’acqua. E quindi spingevano per un accordo più ambizioso e al tempo stesso per avere certezza dei finanziamenti e aiuti.

Le trattative sono proseguite fino a ieri sera, in una sorta di impasse difficile da superare. Colloqui e testa a testa serrati fra i delegati americani, europei, cinesi, indiani. A un certo punto la Cina ha mostrato uno spazio di apertura, che ha fatto ben sperare, ma la resistenza ostinata dell’India ha alla fine avuto la meglio. D’altronde l’India è il terzo Paese per emissioni derivanti da combustibili fossili, e molta parte della sua energia deriva dal carbone (70 per cento della produzione di energia nazionale). Quattro milioni di indiani lavorano nella filiera del carbone; il consumo di carbone è raddoppiato nell’ultimo decennio e il governo ha progettato l’apertura di decine di nuove miniere di carbone, nonostante la promessa di investire massicciamente nelle energie rinnovabili.

Probabilmente il delegato indiano aveva come incarico quello di resistere a tutti i costi. E così, per sfinimento, è stata cambiata una parola nell’accordo, che però ne annacqua molto il senso del capitolo che riguarda l’abbandono del carbone. La parola phase out, ovvero abbandono, è stata sostituita da phase down, che sta per progressiva riduzione. E il carbone lo sappiamo, è il combustibile che emette più CO2. 

Cosa prevede l’accordo.

Quindi cosa prevede l’accordo finale? I punti più importanti sono: 

  1. L’impegno di ridurre le emissioni del 45% entro il 2030 per raggiungere le emissioni nette zero attorno a metà secolo. Punto che è rimasto ed è importante, perché c’è un obiettivo concreto e misurabile. Anche se non si dice niente di come ciò dovrebbe avvenire.
  1. Il miglioramento dei nationally determined contributions, ovvero degli obiettivi di riduzione delle emissioni da parte delle singole nazioni, che era uno degli obiettivi di questa COP, è stato di fatto rimandato alla prossima COP che si terrà a fine 2022 in Egitto. Considerate che è stato calcolato che stando agli obiettivi attuali delle singole nazioni (che comunque, già così, le nazioni non stanno rispettando) le emissioni nel 2030 saranno maggiori del 13% rispetto al 2010. Dovrebbero cambiarli entro un anno in modo che complessivamente si raggiunga come risultato un -45%. Ce lo auguriamo tutti ma qualche dubbio c’è.
  1. Il punto in cui si esortano gli Stati ricchi a «raddoppiare» almeno il loro contributo all’adattamento dei Paesi più svantaggiati entro il 2025 rispetto ai livelli del 2019. Importante, ma molto vago, anche qui. In teoria già l’accordo di Parigi prevedeva che fossero versati a partire dal 2020 100 miliardi di dollari all’anno dai paesi ricchi ai paesi più poveri per favorire adattamento e mitigazione climatica. Cosa che non è successa, se non in piccola parte. I paesi più poveri speravano che questa volta venissero introdotti dei meccanismi formali chiari con cui questo contributo veniva previsto e regolato, ma non è stato così. 
  1. Infine la controversa questione del phase out/ phase down dal carbone, con l’India che ha fatto cambiare la frase in extremis, facendo mettere le mani nei capelli a molti.

Ci sarebbero un sacco di cose da dire. Cominciamo intanto con le cose che sono state dette. Come spesso accade in queste occasioni, le reazioni a caldo sono delle più disparate, e questa volta in particolare si va da chi parla di parla di accordo storico a chi parla di disfatta. 

Lo stesso presidente della COP, Alok Sharma, non ha nascosto la sua delusione per l’accordo, ha chiesto scusa ai paesi che soffriranno più di altri le conseguenze dei cambiamenti climatici, e al tempo stesso, mentre cercava di trattenere le lacrime ha detto che «Si è fatta la storia, qui a Glasgow». 

L’inviato Usa John Kerry ha parlato di un «buon accordo», nonostante qualche problema». Jennifer Morgan, direttrice esecutiva di Greenpeace, ha detto che «hanno cambiato una parola (il riferimento è all’articolo relativo al carbone), non possono cambiare il segnale che emerge da questo summit». Lasciando intendere che è un segnale positivo. Manuel Pulgar-Vidal, del Wwf: «Dobbiamo riconoscere che c’è stato un progresso, ci sono nuove opportunità per i Paesi di mettere in pratica soluzioni per evitare la catastrofe climatica. Ma o inizieranno a implementare con decisione queste soluzioni, o la loro credibilità continuerà a essere a rischio».

Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres invece non ha nascosto la sua delusione per l’intesa. «La catastrofe climatica resta alle porte», ha detto. L’accordo raggiunto «è certamente benvenuto, ma è un compromesso, e riflette gli interessi, le condizioni, le contraddizioni e lo stato della volontà politica nel mondo oggi. È un passo importante ma la collettiva volontà politica non è stata abbastanza per superare le profonde contraddizioni».

Ancora più drastica Greta Thunberg, che ha sentenziato: «Ecco un breve riassunto: Bla, bla, bla. Ma il vero lavoro continua fuori da queste sale. E non ci arrenderemo mai, mai».

Veniamo ai giornali: il Guardian titola “L’obiettivo di 1,5° è ancora vivo, ma di poco”. il Washington Post: “Le nazioni raggiungono un accordo per accelerare l’azione per il clima, ma il mondo rimane fuori bersaglio”, il NYT “I negoziatori raggiungono un accordo sul clima, ma restano lontani dal limitare il riscaldamento”, Al Jazeera “Alla COP26, le nazioni raggiungono un accordo sul clima che non è all’altezza”. I principali giornali indiani praticamente non parlano della notizia. in Italia Repubblica, il Corriere, il Fatto Quotidiano parlano di “intesa al ribasso”, la Stampa di accordo annacquato.

Proviamo ad aggiungere un piccolo pezzetto di ragionamento. La prima cosa mi viene da aggiungere è una roba del tutto fuori contesto ma che mi ha colpito come una sassata in fronte ascoltando i negoziati. Ed è il potere dell’immaginario degli esseri umani. Durante il summit i delegati che via via prendono parola non sono chiamati con il loro nome e cognome, ma con il nome della nazione che rappresentano. Per cui la parola viene data all’Argentina, poi all’Italia, poi alle Maldive. Un fatto simbolicamente potentissimo, perché trasmette proprio l’idea che a parlare non sia una persona ma un’intera nazione e che quella persona si faccia carico della voce e degli interessi di tutta la sua nazione. 

Che c’entra con l’immaginario? C’entra perché le nazioni non esistono davvero. Sono solo un pensiero a cui crediamo collettivamente, ma non esiste niente nel mondo vero che indichi l’esistenza di una nazione. Gli stati nazione sono una roba storicamente molto recente, e se tutti perdessimo la memoria, da domani le nazioni smetterebbero di esistere. Eppure siamo disposti ad estinguerci pur di proteggere gli interessi particolari di questa nostra allucinazione collettiva.

Venendo più al concreto, credo che i giudizi differenti sull’accordo dipendano dalla prospettiva da cui lo si guarda. Se si prende come punto di osservazione quelle che potevano essere le aspettative realistiche verso un summit come questo, in cui i delegati delle varie nazioni partecipano ciascuno l’obiettivo di ottenere il miglior accordo possibile per la propria nazione, e non per il mondo, e a cui partecipavano attivamente circa 300 lobbisti delle energie fossili, è un buon accordo. Un buon compromesso.

Se invece si prende come punto di riferimento quello che servirebbe per avere qualche chance di continuare ad abitare collettivamente questo pianeta, è una disfatta. Un accordo con un obiettivo forse un po’ più specifico rispetto a quello di Parigi di sei anni fa ma di nuovo senza nessun appiglio concreto, senza un piano operativo. Sarebbe come se io fossi andato sei anni fa dal dottore perché fumavo 40 sigarette al giorno e fossi uscito dalla stanza dicendo tranquillo, da domani smetto. Poi ci son tornato ieri, sei anni dopo, e invece di 40 sigarette ne fumo 45, e di nuovo gli dico tranquillo, domani smetto. Non sono molto credibile no?

Questo però ci dice qualcosa di molto importante. Il fatto che il miglior accordo possibile all’interno di quel contesto non sia minimamente sufficiente né risolutivo significa che è il contesto che non va bene. Non è lo strumento adatto. Torniamo all’esempio del triciclo e dell’uragano di qualche giorno fa. Se scappo da un uragano con un triciclo, io posso anche mettercela tutta, e dire che sto andando forte, ma è difficile che riesca a sfuggire. E a un certo punto mi dovrò rendere conto che devo cambiare mezzo.

L’architettura delle COP, e più in generale il sistema su cui si basa l’architettura delle COP, ovvero questo sistema, non è in grado di risolvere la crisi ecologica. Questo sistema basato sul connubio fra economie capitaliste (come ormai lo sono anche Cina, India) e sistemi di governance tradizionali (che siano democrazie rappresentative, o stati più autoritari) e su una cultura meccanico-riduzionista, che riduce la complessità alla somma di tanti interessi particolari, non riesce proprio a risolvere problemi complessi. 

Ripeto, non è in grado. Non vuol dire che il sistema sia brutto e cattivo, non ha nemmeno troppo senso “combatterlo”, o chiedergli urlando di fare qualcosa che non sa fare. Sarebbe come chiedere a una caldaia di prepararci il caffè. E allora è estremamente urgente mettere la testa fuori da quella scatola lì, e iniziare a osservare quali alternative abbiamo. E c’è già chi lo sta facendo, anche nelle istituzioni. La stessa EEA (Agenzia europea per l’energia) ha recentemente iniziato a interrogarsi se non sia il momento di uscire dal paradigma della crescita infinita, e qualche giorno fa in Italia l’Ispra ha tenuto un seminario intitolato “Oltre la crescita economica per la conservazione della biodiversità e la resilienza alimentare” con ospiti istituzionali.

Alcuni comuni e amministrazioni sperimentano modelli di governance diversi, come la sociocrazia e la democrazia deliberativa. Il movimento di XR sta promuovendo le assemblee deliberative e tanti stati hanno affiancato al sistema rappresentativo altri strumenti. Sono tutti passi che vanno nella direzione, per me più interessante, di creare le basi strutturali per poi poter davvero risolvere il problema.

Articoli e fonti:

The Guardian – Cop26: the goal of 1.5C of climate heating is alive, but only just
Aljazeera – At COP26, nations strike climate deal that falls short
Corriere.it – Cop26, accordo (al ribasso) tra i 197 Paesi: la maratona per convincere l’India
la Stampa – Clima, siglato un accordo “annacquato”: India e Cina impongono una frenata sul carbone. Il presidente di Cop26: “Mi scuso”

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