11 Lug 2023

La questione spinosa delle bombe a grappolo Usa all’Ucraina – #763

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L’amministrazione Usa ha deciso di inviare bombe a grappolo, un tipo di ordigno molto controverso, che uccide più civili che militari, in Ucraina, suscitando perplessità anche fra gli alleati. Intanto in Olanda è caduto il governo e l’attuale premier, Mark Rutte, ha detto che non si ricandiderà. Parliamo anche di come sta andando la sperimentazione dei mezzi quasi gratuiti a Bari e del calo del disboscamento illegale in Amazzonia.

Sta destando un certo scalpore l’annuncio dell’amministrazione americana di Joe Biden, annuncio avvenuto venerdì, che per la prima volta invierà all’esercito ucraino forniture di bombe a grappolo. 

Ha giudicato scalpore perché le bombe a grappolo sono una roba molto controversa. Ci spiega perché un articolo del Post, che racconta come queste armi siano giudicate estremamente efficaci dal punto di vista militare ma molto controverse per i possibili danni collaterali che provocano sulla popolazione civile, e per tale motivo sono state vietate da una convenzione dell’ONU firmata da più di 100 paesi. Paesi tra cui però non compaiono Stati Uniti, Russia e Ucraina. Curioso.

Ma che sono queste bombe a grappolo, o cluster bombs? Sono dei “contenitori” che trasportano decine o centinaia di bombe più piccole, note anche come “submunizioni”. Possono essere sganciate da un aereo o lanciate da terra o da mare. Quando raggiungono un’altezza prestabilita, a seconda dell’area interessata che può essere ampia quanto diversi campi da calcio, si aprono e le bombe al loro interno si distribuiscono, “a grappolo” sull’area sottostante, esplodendo al momento dell’impatto.

Il problema principale delle bombe a grappolo, e la ragione per cui sono così controverse, è che spesso un buon numero delle submunizioni lanciate non esplode, per esempio quando cade sulla vegetazione o su un terreno erboso, che non crea abbastanza impatto da provocare l’esplosione. Parliamo, secondo stime della croce Rossa, di circa il 10-40 per cento delle bombe che restano lì e rimangono pericolose per decenni. Una volta terminato il conflitto, le submunizioni rimaste possono essere fatte esplodere accidentalmente da civili o veicoli di passaggio, o possono essere raccolte da bambini ed esplodere. Per questo l’uso, lo stoccaggio e il trasferimento delle bombe a grappolo sono vietati dalla Convenzione delle Nazioni Unite sulle munizioni a grappolo del 2008, che è stata firmata da oltre 100 nazioni.

Circolano stime secondo cui più del 90 per cento delle persone registrate come uccise o ferite dalle bombe a grappolo sono civili, tra cui moltissimi minori. Queste stime, tuttavia, sono con ogni probabilità falsate dal fatto che gli eserciti non forniscono dati precisi sui soldati feriti o uccisi da determinate armi.

Ora: le bombe a grappolo sono già ampiamente usate nella guerra in Ucraina: le usano sia l’esercito ucraino sia l’esercito russo. E l’amministrazione americana ha annunciato che invierà all’Ucraina bombe a grappolo più efficienti di quelle attualmente in uso nella guerra e potenzialmente meno pericolose per i civili, con un dud rate, ovvero un tasso di mancata esplosione fra il 2 e il 3 per cento. Ma sappiamo che su questi aspetti le previsioni delle parti in causa valgono quello che valgono. 

In un’intervista a CNN Biden ha detto che la decisione di inviare bombe a grappolo all’Ucraina è stata «difficile» ma necessaria perché «gli ucraini stanno finendo le munizioni», e gli arsenali occidentali sono a corto di munizioni convenzionali.

Tuttavia, come dicevamo, la decisione ha sollevato non poche critiche. Comprensibilmente. Come scrive Pierre haski su France Inter tradotto da Internazionale, se è vero che formalmente “tra i firmatari non ci sono né gli Stati Uniti né l’Ucraina né tantomeno la Russia, dunque Washington non commette alcuna violazione decidendo di consegnarle all’esercito di Kiev”, al tempo stesso “è difficile votare un bando per un tipo di arma e contemporaneamente accettare che un alleato ne consegni in quantità a un paese di cui si sostiene la causa”. Un paradosso da cui nasce il disagio dell’Europa.

A Londra il primo ministro Rishi Sunak ha assunto un’insolita posizione di contrasto con gli Stati Uniti, dichiarando che il suo paese non consegnerà le bombe a grappolo all’Ucraina. 

Stesso problema in Germania, dove il presidente Steinmeier ha messo fine al dibattito con un’approvazione non esattamente proprio convinta della decisione di Washington. In Francia, il Quai d’Orsay fa sapere di “comprendere” la posizione degli Stati Uniti. In Spagna, invece, il ministro della difesa ha dichiarato che “certe armi e bombe non devono essere consegnate, in nessun caso”.

Scrive ancor ail giornalista: “Da queste reazioni risulta evidente che l’argomento solleva problematiche mai affrontate dall’inizio della guerra in Ucraina. Da oltre un anno e mezzo l’Ucraina e i suoi alleati occidentali si presentano come garanti del diritto internazionale contro l’aggressività della Russia. Non senza difficoltà, questo fronte cerca di convincere parte dei paesi del sud della necessità di sostenere una guerra per la giustizia. Ma ecco che all’occorrenza la necessità diventa legge e la carenza di munizioni prevale sui princìpi. Come ha spiegato il presidente tedesco, senza munizioni l’Ucraina non esisterebbe più. Ma è innegabile che la forza morale del sostegno alla causa di Kiev risulti indebolita se l’Ucraina usa “armi sporche”, come d’altronde fa la Russia.

L’articolo non lo cita, ma anche il governo italiano ha assunto u na posizione abbastanza contraria alla vicenda. Il primo esponente italiano a toccare il tema è stato il ministro della Difesa Guido Crosetto. Ha ricordato che Roma “ha aderito alla Convenzione sulle munizioni a grappolo, che ne vieta l’uso, la produzione, il trasferimento e lo stoccaggio”. Però ha messo anche in chiaro che “i russi le usano da sempre, anche in Ucraina, dall’inizio”.

Lo stesso ha fatto poi la premier, Giorgia Meloni, che dopo aver menzionato la partecipazione italiana ai trattati contro le munizioni a grappolo, ha detto che “l’Italia auspica l’applicazione universale dei principi della Convenzione”.

Adesso c’è da capire quanto sarà convinta questa opposizione di fronte a una mossa del governo Usa piuttosto netta e che lascia poco adito a ripensamenti. Staremo a vedere.

Venerdì è caduto il governo olandese guidato da Mark Rutte, dopo una crisi che si aperta nella coalizione di maggioranza riguardo l’accoglienza dei migranti, su una proposta di legge che mirava a ridurre il numero delle richieste di asilo.

Dopo le dimissioni di Rutte, avvenute venerdì, e l’annuncio di nuove elezioni anticipate a novembre, avvenuto sabato, ieri mattina Rutte ha annunciato che lascerà la politica dopo le elezioni anticipate di novembre. Rutte, spiega la redazione esteri del Corriere della Sera, “ha guidato quattro governi consecutivi come leader del Partito popolare per la libertà e democrazia (Vvd) ed è in carica dal 2010. Nell’annunciare il suo ritiro ha detto: «Ieri mattina ho deciso che non correrò di nuovo come leader del Vvd. Quando si sarà formato il nuovo governo dopo le elezioni, lascerò la politica».

Secondo gli ultimi sondaggi, condotti a inizio luglio, il Vvd sarebbe il secondo partito più votato, con il 21 percento. In testa, con il 27 percento, c’è il Movimento civico-contadino (Bbb) guidato da Caroline van der Plas, che a marzo ha ottenuto la maggioranza nelle elezioni provinciali.

Non so se vi ricordate, ma il  Movimento civico-contadino è quel partito di destra diciamo populista, che contesta a gran voce le leggi sulla transizione ecologica volute proprio dal governo Rutte, quelle per ridurre drasticamente gli allevamenti e l’agricolura intensiva. Vabbè, giusto per inquadrare la situazione olandese.

Torniamo in Italia, a Bari per l’esattezza, dove da circa 6 mesi va avanti una interessantissima sperimentazione sui mezzi pubblici quasi gratuiti. Un articolo del post fa il punto su come sta andando. In pratica a inizio gennaio il sindaco di Bari aveva annunciato che l’abbonamento annuale per i mezzi pubblici a Bari sarebbe costato 20 euro invece che 250. L’esperimento è partito a inizio febbraio e adesso, sei mesi dopo, sembra che i primi risultati siano interessanti. 

Nel 2022 la società che gestisce i mezzi pubblici a Bari aveva registrato una diminuzione del 44 per cento dei passeggeri rispetto al 2019. L’agevolazione, che si chiama Muvt 365, sembra aver invertito questa tendenza. Il primo giorno, in 4 ore, erano arrivate ad Amtab oltre 1600 richieste di abbonamento. Da febbraio a oggi, stando all’amministrazione comunale, gli abbonamenti Muvt venduti sono stati più di 17mila.

L’articolo tuttavia mette anche in uardia da possibili letture troppo entusiastiche del dato. “Per quanto il dato possa sembrare incoraggiante è bene ricordare che con Muvt 365 l’abbonamento mensile è diventato invece straordinariamente svantaggioso Per questo, infatti, nel 2023 (da gennaio a giugno) gli abbonamenti mensili venduti sono stati meno di 6.500, mentre nel 2022 erano circa 27mila.

Più in generale, se si considerano annuali e mensili insieme, l’anno scorso erano stati venduti circa 29mila abbonamenti mentre quest’anno poco più di 24mila, nella loro gran parte annuali (dato destinato a crescere lievemente nei sei mesi che mancano alla fine dell’anno). Al momento quindi non è possibile chiarire se l’agevolazione abbia coinvolto persone che abitualmente preferiscono spostarsi in auto, che a Bari sono molte, oppure se quello che è successo è quasi unicamente uno spostamento dall’uso di abbonamenti mensili a quelli annuali, più convenienti. 

Dal comune dicono comunque di essere molto soddisfatti dell’iniziativa, come ha spiegato un portavoce: «L’utenza effettiva non deve essere calcolata sulle vendite degli abbonamenti. Noi stimiamo che ogni abbonamento corrisponda a un numero di corse: ad esempio, un abbonamento mensile corrisponde più o meno a 35 corse». In base a queste stime, l’amministrazione ha calcolato che nel 2019 a Bari erano state effettuate circa 25,8 milioni di corse. Durante la pandemia si erano invece spostate con i mezzi pubblici molte meno persone: 13 milioni di corse nel 2020 e 11 milioni nel 2021. 

Poiché nel frattempo è cresciuto l’uso di altre forme di mobilità (soprattutto quelle in sharing) in Comune sono soddisfatti che il progetto abbia – a loro dire – contribuito a riportare l’uso dei mezzi pubblici tradizionali ai numeri del 2019. «Secondo la prima stima dei dati del 2023 – ha proseguito il portavoce – siamo riusciti a recuperare quasi completamente il gap perso in questi anni e prevediamo di chiudere l’anno con 22 milioni e 778 mila. E visto che la misura sarà rinnovata anche per il 2024, contiamo di tornare ai 25 milioni di corse del 2019».

Comunque, per spingere in questa direzione il comune ha in programma per i prossimi anni nuovi investimenti per la mobilità: il più rilevante sarà il progetto Bus Rapid Transit (BRT), un’infrastruttura completamente elettrica costituita da 4 nuove linee centrali, che il portavoce ha definito “una metropolitana in superficie”, a cui sarà associata una rete di trasporto di quartiere. L’iniziativa, da 160 milioni di euro, dovrà essere completata entro il 2026, secondo le tempistiche imposte dal PNRR con il quale sarà finanziata.

Spostiamoci in Brasile, per leggere alcune statistiche interessanti e rincuoranti sull’Amazzonia, il polmone verde del mondo sul quale sembra che la cura Lula stia effettivamente funzionando. Come ci racconta Rosita Cipolla su GreenMe “Nell’Amazzonia brasiliana, la deforestazione ha già avuto un crollo pari al 33,6% nei primi sei mesi del 2023. 

Da quanto emerso dall’Istituto nazionale di ricerche spaziali (Inpe), sulla base delle immagini satellitari, le aree verdi disboscate tra gennaio e giugno 2023 sono state pari a 2.649 km2, mentre nello stesso periodo di riferimento dello scorso anno la cifra era decisemente più elevata:  ben  3.988 km2 di foresta amazzonica distrutta.

Si tratta di un cambio di rotta molto importante, anche se stiamo parlando comunque, ancora, del fatto che la deforestazione c’è. Si disbosca meno, ma si disbosca, la foresta continua a diminuire in volume. Ma più lentamente.  Soltanto a giugno 2023 la deforestazione è diminuita del 41% rispetto allo stesso arco temporale del 2022, anche se – purtroppo – il numero degli incendi resta ancora elevato.

Con Jair Bolsonaro al timone del Brasile invece, nella più grande foresta pluviale della Terra la deforestazione ha toccato livelli allarmanti. Sotto il mandato di Bolsonaro, si è assistito ad un incremento del 75% rispetto alla media dell’ultimo decennio.

Il neo presidente brasiliano Lula ha fatto della lotta alla deforestazione uno dei suoi cavalli di battaglia durante la campagna elettorale. Il suo obiettivo, su cui sta lavorando la ministra dell’Ambiente Marina Silva, è quello di sradicare completamente il fenomeno illegale entro il 2023.

Qualche settimana fa il leader brasiliano ha chiarito i dettagli del suo piano d’azione, che prevede il sequestro immediato di metà delle aree sfruttate illegalmente all’interno di riserve protette e l’arricchimento di queste ultime con tre milioni di ettari entro il 2027, oltre all’assunzione di migliaia di specialisti del settore.

“Il Brasile sarà implacabile nella lotta contro i crimini ambientali. Combatteremo l’estrazione mineraria illegale e coloro che attaccano le popolazioni indigene.” ha annunciato Lula negli scorsi giorni, chiedendo inoltre di organizzare la COP30 nello stato del Parà.

Sempre negli scorsi giorni, racconta invece Tom Philips sul Guardian, “Il capo della polizia federale brasiliana per l’Amazzonia ha celebrato il successo del governo nell’allontanare migliaia di minatori illegali dal più grande territorio indigeno del Paese, ma ha avvertito che la “guerra” contro i criminali ambientali non è ancora finita.

Parlando durante una visita alla città amazzonica di Belém, Humberto Freire ha stimato che le forze speciali ambientali e di polizia hanno espulso il 90% dei 20.000 minatori che stavano devastando il territorio protetto degli Yanomami, da quando è stata avviata la repressione a febbraio.

E questo sarebbe il principale motivo di calo drastico della deforestazione. Ma la questione non è ancora risolta, come dimostra un tragico fatto della scorsa settimana, quando “un bambino della popolazione indigena yanomami è stato ucciso con un colpo di pistola e altre cinque persone, tra cui un leader indigeno, sono state ferite durante un attacco a un villaggio yanomami. E questo è stato solo l’ultimo di una serie di incidenti mortali che hanno colpito il territorio dall’inizio della campagna di sgombero. Insomma, la strada è probabilmente giusta, ma c’è in corso una sorta di conflitto, che riguarda la tutela della foresta

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