FESTA DEL 1° MAGGIO: UNA RICORRENZA DA REINVENTARE…

Coloro che non hanno una occupazione, disabili compresi, non hanno nulla da “sbandierare” ma da richiamare le Istituzioni alle loro rispettive responsabilità. Anche chi non lavora (suo malgrado) ha ed avrà sempre una bocca sotto il naso.

di Ernesto Bodini (giornalista e divulgatore di tematiche sociali)

Non mi sembra questo il periodo per i festeggiamenti, in particolare per quanto riguarda il 1° maggio. Tale ricorrenza risale al 1866 quando fu approvata a Chicago, in Illinois, la prima legge delle otto ore lavorative giornaliere, legge che entrò in vigore soltanto l’anno dopo, il 1º maggio 1867, giorno nel quale fu organizzata un’importante manifestazione, con almeno diecimila partecipanti. Quindi, storicamente la festa del primo maggio divenne ufficiale in Europa a partire dal 1889, quando venne ratificata a Parigi dalla Seconda Internazionale, organizzazione che aveva lo scopo di coordinare i sindacati e i partiti operai e socialisti europei. In Italia la festa del 1° maggio fu introdotta solo due anni dopo. Tralasciando le evoluzioni successive, fatto sta che ogni anno anche nel nostro Paese si “onora” questa data (quindi non lavorando, e se cade in un giorno festivo la ricorrenza perde un po’ del suo fascino). Ma perché queste affermazioni? Per quanto ci riguarda sono decenni che in Italia non è mai stato risolto il problema del lavoro e quindi della disoccupazione, nonostante l’art. 4 della Costituzione reciti: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

Inoltre, va ricordato che tra coloro che hanno diritto ad una occupazione rientrano anche i disabili (definiti “categorie protette”), per i quali è prevista una apposita legge (di garanzia?), ossia ai sensi dell’art. 4 comma 4 della Legge 68/99 possono essere riconosciute le assunzioni di persone che sono divenute invalide in costanza di rapporto di lavoro con una percentuale di invalidità minima del 60% se invalidi civili e del 34% se invalidi del lavoro. In particolare i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad avere alle loro dipendenze lavoratori appartenenti alle categorie di cui all’articolo 1 nella seguente misura: a) sette per cento dei lavoratori occupati, se occupano più di 50 dipendenti; b) due lavoratori, se occupano da 36 a 50 dipendenti; c) un lavoratore, se occupano da 15 a 35 dipendenti. Soffermandomi sugli aventi diritto di questa categoria, mi risulta che anch’essi siano in gran parte degli eterni disoccupati, che in aggiunta ai cosiddetti “normodotati”, oltre ai sottoccupati, diventano un piccolo esercito di persone lese nella loro dignità e nel loro diritto al sostentamento esistenziale, del momento e per quando saranno in età pensionabile. In tal senso, va osservato che durante l’età lavorativa hanno lavorato poco o nulla e quindi non hanno potuto versare la dovuta contribuzione Inps, di conseguenza, saranno destinati a vivere (se non a sopravvivere) di sussistenza… È questa quindi la Giornata dei lavoratori da festeggiare? Le Istituzioni, o meglio, i loro rappresentanti che ogni volta si avvicinano ad un microfono da un pulpito o da una piazza per “sciorinare” discorsi intrisi di retorica (non certo su base didattica) anche per questa ricorrenza, dovrebbero privilegiare più concretamente temi caldi come la disoccupazione, e non divergere tra loro se predisporre sussidi… in alternativa: non è certo questa la soluzione (sic!). Potrei proseguire oltre, ma dilungandomi non farei altro che sottoporre agli occhi di tutti i disoccupati, un’Italia e loro “dirigenti-faccendieri” sempre meno degni di rientrare nei ranghi degli “onorevoli” (si noti la non maiuscola della vocale iniziale), proprio come molti di loro amano definirsi a destra e a manca… persino in Parlamento Europeo, dove tale termine è assai ripudiato!

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